È tutto nell’attesa. Della vita, quella di tutti i giorni, e della sua fine.

Nel bar di una stazione del Sud, due uomini si incontrano per caso e chiacchierano. Sembrano conoscersi da tempo. Uno aspetta sua moglie e un treno, il precedente lo ha perso. L’altro, quello dal fiore in bocca, aspetta che arrivi il suo momento, perché quel fiore altro non è che un epitelioma «Ah, un nome dolcissimo… più dolce d’una caramella: – Epitelioma, si chiama. La morte, capisce? è passata. M’ha ficcato questo fiore in bocca».

Uno travolto dalla vita e dalla sua quotidianità, dai semplici dilemmi, da momenti di trascurabile felicità o infelicità per dirla con le parole di Francesco Piccolo. L’altro da quei momenti è affascinato e ci si aggrappa ‘come una rampicante ad un cancello’.

Con la morte addosso (La morte addosso era il titolo della prima stesura della novella di Pirandello andata in scena, poi, per la prima volta nel 1922 in un atto unico con il titolo: L’uomo dal fiore in bocca) cambia la prospettiva, cambia il punto di vista, cambia il senso della vita e della sua fine.

E di questo si tratta. Il dramma borghese di Pirandello, riletto alla luce della cifra tragicomica e pop, distintiva del teatro di Gianni Ciardo, con Franco Ferrante, parla appunto di prospettive, del significato delle parole, della loro contestualizzazione, di quanto un malgrado possa essere più spaventoso di un nonostante e di quanto le ossessioni siano hobby per i ricchi e fissazioni per i poveri. È tutto nei dettagli, la divina e diabolica bellezza e la differenza. La vera natura delle cose e della vita stessa.

Ecco che i gesti normali, semplici, ripetitivi, quasi noiosi per uno, diventano, per l’altro, piccole ancore di salvezza a cui legarsi per sentirsi ancora vivo, anche se per poco.
Sbirciare dietro le vetrine dei negozi la vita che si ripete sempre uguale e mai identica, immaginare, guardando le luci accese delle finestre, di entrare nelle case e nelle vite degli altri e sentirne i respiri e i profumi per dare un senso alla propria vita e a quel che ne rimane.

La morte che ci sta addosso sempre come certi insetti e nessuno che possa scacciarla via, la morte che relativizza la realtà e la zooma, la ingrandisce per mettere a fuoco i dettagli, la vera trama, il suo vero valore. La morte che è valore, la morte che rende degna la vita di essere vissuta. La morte inevitabile come le tasse, la morte che si abbarbica alla vita subendone il fascino: in questi curiosi accostamenti riecheggia un altro dialogo, quello tra Anthony Hopkins e Brad Pitt nel famoso film Vi presento Joe Black (Meet Joe Black) del 1998 con la regia di Martin Brest. Anche qui la morte è pretesto per raccontare meglio la vita e quanto sia difficile staccarsene, perché così è. Perché la vita crea dipendenza.

 

Gianni Ciardo e Franco Ferrante riportano e rileggono in scena non solo questo atto unico di Pirandello ma, con riferimenti ad altre opere del poeta e scrittore siciliano, (ad esempio, Uno, Nessuno e Centomila e Pensaci Giacomino) ne esplicitano lo stile che puntava a una rappresentazione della realtà non più concepibile in senso deterministico, in quanto soggetta alla distorsione dovuta a una sostanziale differenza di prospettiva a seconda di chi osserva, racconta e vive.

Ciardo è l’avventore, un uomo semplice, pacifico e scanzonato, Ferrante è l’uomo dal fiore in bocca, silenzioso, uomo di pensiero, attento ai dettagli. Un uomo chiacchierone ed esuberante, il primo e il suo controcanto, il suo alter ego, il secondo: più cupo, più oscuro. La luna e la sua dark side. Due metà complementari, due facce della stessa medaglia, due punti di vista, due opposti a fare un intero.

Ciardo e Ferrante affrontano un classico dal peso letterario e tematico importante, sdrammatizzandolo ma senza mai sminuirlo, grazie a quella vena di strepitosa spensieratezza a cui lo stesso Ciardo ha abituato ed educato i suoi spettatori, in questi anni, con il suo originale e genuino modo di fare teatro.

Maestria, mestiere e dovizia non lasciano nulla al caso e anche l’improvvisazione è drammaturgia. Per strappare un sorriso, anzi molti, mentre dalla platea ci guardiamo vivere sulla scena, in questa vita complessa e in divenire e scomponiamo per la durata dello spettacolo, questa umanità caleidoscopica, a tutto tondo e quadrimensionale, appiattendola in due dimensioni, per accostare e mettere in fila tutti i punti di osservazione, come in una tela cubista e tentare di capirla. Perché il teatro serva a questo: a mettere in ordine la vita per trovarne un senso, anche alla sua fine.

L’uomo dal fiore in bocca, con l’adattamento (originale) e la regia di Gianni Ciardo, con Ciardo e Franco Ferrante e le scene di Damiano Pastoressa, è andato in scena al Teatro Fava di Modugno domenica 17 marzo.